Pavese: è troppo bello chiedere troppo alla vita


“E’ notte, al solito. Provi la gioia che adesso andrai a letto, sparirai e in un attimo sarà domani, sarà mattino e ricomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose.” Con questo augurio il pubblico inizia a perdersi verso l’uscita mentre in sala risuona ancora un applauso caloroso ed emozionato.

"E' troppo bello chiedere troppo"
“E’ troppo bello chiedere troppo”

Si conclude così il secondo appuntamento del Mese Letterario, organizzato dalla Fondazione San Benedetto e quest’anno alla sua quarta edizione. La serata è dedicata a Cesare Pavese dopo quella inaugurale su C. S. Lewis.

Valerio Capasa, insegnante di Lettere e collaboratore con le cattedre di Italianistica dell’Università di Bari nonché relatore dell’incontro, parla di Pavese come di un amico di vecchia data “perché ridurre un autore a un’etichetta significa non conoscerlo più.” Cattura fin da subito l’attenzione di tutti i presenti, quasi seicento persone, con voce appassionata e sguardo commosso. Ma soprattutto con gli scritti stessi dello scrittore. Lo legge, lo recita, lo racconta. “Colpisce la sincerità con cui ha affrontato il mestiere di vivere e colpisce la fedeltà con cui ha riportato le sue scoperte letterarie ed esistenziali.”

Il suo desiderio più grande? “Valere qualcosa con la penna” scrive durante gli anni del liceo. Ventiquattro anni dopo vince il Premio Strega: è un big. Eppure al suo diario confida: “Apoteosi. E con questo?” Si rende conto che insieme al godimento c’è l’insoddisfazione. Che il successo non basta, non gli bastava più. Che meno dell’infinito non gli bastava più niente. Lui che ha vinto quel riconoscimento è credibile. Chiede troppo alla vita? “E se anche fosse? – continua Capasa – Del resto vale la pena chiedere meno del troppo? E’ troppo bello chiedere troppo.”

Il ritratto di questo autore suicida si arricchisce di nuove immagini, fotogrammi, pezzi di un puzzle che si fa via via più pittoresco, vero, umano. “C’è una lei, nella vita di Pavese. E questa lei è la realtà. Viviamo spesso senza esserci nei gesti, nelle parole, nelle azioni. Quando ci accorgiamo che le cose ci sono, è lo stupore che ci sorprende. E’ la scoperta che la realtà ci sta aspettando. Come per Pavese quel campo di granoturco: il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granoturco e ascoltai il fruscìo dei lunghi steli secchi mossi nell’aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c’era il cielo vuoto. ” Quest’è un luogo da ritornarci”, dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta, come se dovessi portare la notizia a qualcuno che stesse lontano. Ero io che stavo lontano, lontano da tutti i campi di granturco e da tutti i cieli vuoti.” Tutto è un dono, un miracolo. E allora eccolo, Pavese, alla ricerca di Qualcuno: “chi, chi, chi ringraziare? Chi bestemmiare il giorno che tutto svanirà?”

E persiste nella ricerca. Sempre. Come Ulisse che tenta di sottrarsi alla rassegnazione di Calipso: “Da troppo tempo la cerco, Itaca. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere.” Suicida certo, ma ciò non toglie la verità delle sue parole.

“Dopotutto – conclude Capasa con le parole di Pavese – l’unica gioia al mondo è cominciare. E’ bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. “

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